Conferenza Prof. Di Pietro

DIETER SCHLESAK – VIVETTA VALACCA
LA LUCE DELL’ANIMA
di
Corrado Di Pietro

C’è un filo, unico e ininterrotto, che lega molti luoghi della letteratura mondiale e unisce poeti diversi per origine, formazione, appartenenza, religione. Ce lo ha cucito addosso Dio stesso, al momento della creazione, ma solo alcuni di noi lo hanno rintracciato nel proprio cuore e con esso hanno legato i propri giorni e la propria storia: è il filo dell’amore. Non solo dell’amore umano, passionale e sentimentale, ma anche dell’amore spirituale, anch’esso appartenente all’uomo, ma innalzato oltre iI confine tangibile delle forme e delle sostanze. Alcuni lo chiamano Amore Divino, altri Amore Mistico, altri Amore Spirituale, altri ancora Estasi. Non ha confine fra uomo e Dio, non ha limite di effusione o di discorso: è dell’uomo ed è di Dio, appartiene a loro due, insieme.
Solo i poeti hanno capito questo mistero; a loro Dio stesso ha dato le chiavi del linguaggio mistico, della parola nascosta, del colore dell’immagine. E la loro poesia si dispiega nel canto, nella preghiera, nella lode dell’amore stesso. Così è avvenuto per la poesia araba, in cui il canto d’amore ha il soffio di Allah e la brezza del deserto; così è avvenuto per la poesia biblica, esempio sublime di un legame d’amore umano e divino che si esplicita in una scrittura poetica di altissima fattura; così è avvenuto, nel corso dei secoli nella letteratura sapienziale dei popoli, di ispirazione religiosa, o in quella sentimentale, di ispirazione amorosa. Non c’è popolo che non abbia sperimentato questo stile sublime.
I poeti lo sanno. Dante lo eleva fino alla dignità di unica salvezza dalla debolezza del peccato, anzi è l’unico modo di poter accedere alla visione di Dio (L’Amor che move il sole e l’altre stelle). Petrarca lo trasfigura attraverso le fattezze umane dell’amata. Manzoni lo affonda nella lettura della storia che va spiegata alla luce di quest’amore-salvezza. Lorca lo fa diventare nota musicale e canto, spesso anche lacrima e grido. Ungaretti lo scopre nel dolore umano, individuale, che immancabilmente nasce fra le pieghe della storia collettiva.
È questa la natura dell’amore: vasta, infinita, sospesa fra l’immanenza e la trascendenza, umana e divina.
Certo, stiamo parlando di qualcosa che trascende il comune sentimento d’amore, che sveste i pesanti panni della passione e si presenta, nella sua nudità, all’essenza dell’universo, allo Spirito della natura e forse a Dio stesso.
Questo è lo Spirito d’Amore che circola fra i versi di Dieter Schlesak e Vivetta Valacca. Versi venuti sì da una cultura germanica, che ci ha dato luminosi esempi di poesia e di introspezione sentimentale con Goethe, Hölderlin, Schiller, Rilke in questi ultimi secoli, ma che affondano le loro radici nella poesia biblica e, in parte, in quella greca di Saffo.
Tutto questo lo capiremo meglio analizzando il libretto rosa di Dieter Schlesak e Vivetta Valacca, La luce dell’anima, edizioni ETS, Pisa 2011.
Non è un libro di poesie, come sembrerebbe dall’indice in cui sono riportati titoli e pagine. Ciò serve solo a scopi funzionali di lettura. È invece un poema, unitario e complesso, scritto a quattro mani e due cuori: un Lui o voce maschile e una Lei o voce femminile. Non è un’azione diegetica che si svolge lungo i binari di un racconto ma si procede per sensazioni, illuminazioni, riflessioni, abbandoni e riprese. È un poema dei sentimenti e delle accensioni amorose, di un continuo cercarsi e trovarsi l’uno nell’altra, di una simbiosi di due nature che diventano una.
L’incipit dovuto a Lei è proprio illuminante : “Io e Te insieme/ siamo pura luce e gioia/ e allora capisci/ che siamo polvere di stelle/ e soffio di Dio.” Polvere di stelle: cioè apparteniamo al cosmo, alla creazione. Soffio di Dio: cioè creati con la stessa natura di Dio, lo spirito suo trasferito a noi. E più sotto si legge ancora: “Io e Te insieme/ e allora Tu sei più bello/ e ogni ruga ha un senso/ e Tu sei il libro/ sapienziale e amato.// Ti leggo/ e passo il mio dito/ su ogni segno del volto/ e sfoglio le pagine/ del tuo corpo.// Vi leggo/ il senso dell’amore/ e il mio destino/ vi leggo/ l’eternità che mi hai dato.” Che bei versi! Leggere sul corpo dell’amato il senso dell’amore, il destino e l’eternità del tempo!
Questa chiave di lettura ci apre le porte di una vasta regione sentimentale e spirituale e comincia, fra Lui e Lei, un dialogo d’amorosi sensi, di accensioni e di pulsanti abbandoni. Lui ha un atteggiamento più razionale, più riflessivo e attento alle idee che formano il suo complesso bagaglio culturale; lei invece è una cerbiatta che cerca, nel bosco intricato dei sentimenti, la sua tana e il suo amato.
Lui vuole dissetarsi con l’acqua che è dentro la bocca di Lei e questa metafora dell’acqua ci accompagna lungo tutto il poema, come un bisogno di refrigerio e di purificazione. Lui ha sete d’infinito, ha sete d’avventura e Lei lo sa: “Argonauta del pensiero – lo chiama – Ulisse in ogni mare, / Tu/ navighi/ il presente eterno/ della creazione. E cerchi la Parola,/ natura divina in noi/ confusa/ nascosta/ velata/ dal bagliore della divina purezza/ e dalla malizia dell’uomo.” Questa Parola non è altro che il Logos greco o il Verbum latino, cioè quella luce divina del vangelo di Giovanni che venne a squarciare la tenebra del mondo. Ma l’acqua ha anche una forte valenza iniziatica e la riscontriamo sia nei misteri alchemici sia in quelli religiosi. Noi rinasciamo nell’acqua del battesimo e allora ecco perché dobbiamo purificarci nella fonte della bocca dell’amato, dove sgorga l’acqua della vita fatta saliva e humus, sangue e sapore.
Da questo momento in poi il discorso poetico si eleva, il registro linguistico e metrico si affina e si impreziosisce di superbe espressioni e di ardite metafore. Il dialogo fra i due diventa carezza e bacio ma anche accensione spirituale e serena religiosità, come se il loro amore riposasse tranquillamente nella culla di Dio.
Qualche esempio. Lui scrive: “Chi ha mandato te, te nella mia vita/ così luminosa perché tu ci sei// Sei la carezza che dissolve il mondo/ tutto è così morbido e impensabile// In direzione del cielo/ quello che ci fa scorrere/ l’acqua di Dio in noi/ non muore mai.”
E Lei: “Follia è non amare/ è hybris rifiutare la gioia/ elargita a prezzo di estasi e palpiti.” Ricordo che hybris è un topos della tragedia greca e ha un significato ampio che va dalla superbia alla tracotanza. Quindi siamo folli e superbi se rifiutiamo il più grande dono di Dio! “Perché – dice ancora Lei – Oggi/ la danza eterna/ il moto perpetuo/ non è Sisifo/ che rotola il masso/ ma l’amore/ che crea/ e ricrea/ a sua immagine/ il mondo.” Quindi il moto del mondo e della storia che in esso si svolge non è generato dal male e dal peccato (la superbia di Sisifo condannato a spingere un gran masso verso la sommità di una montagna dalla quale ricadeva in basso per far riprendere allo sventurato Sisifo la immane fatica della continua ascesa) ma dall’amore, soprattutto dall’amore di Dio che lo ha fatto a sua immagine.
Tuttavia la creazione rimane un mistero, noi la comprendiamo appena: “Quello che noi siamo non sappiamo/ quello che ci viene dato, amore,/ ce lo mandano gli angeli/ noi non ci difendiamo.” Così scrive Lui, inserito in una visione filosofica di montaliana memoria (Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo) siamo solo dei contenitori che Dio stesso riempie. Noi non sappiamo “se è l’acqua che brucia in noi o sono le lacrime// Non ci serve/ sapere cosa c’è/ al di là del tempo e dove eravamo/ e dove siamo.” L’amore che ci unisce, sembra dirci il poeta, è tutto il nostro mondo e ci basta.
È veramente difficile potere entrare in questa visione; è la mistica dell’amore. Parte dall’umano sentimento e si innalza al divino compimento. Noi purtroppo apparteniamo alla terra, alla finitezza del peccato e della carne. I poeti, questi poeti, si lasciano andare all’onda del vento angelico e assaporano con godimento ogni vibrazione del loro essere. Lei, da donna, si lascia andare di più e riprende i ritmi e le immagini dell’amata del Cantico dei Cantici: “Si sono spente le stelle/ al nostro bacio,/ amore// Si sono spente e tacciano/ loro/ nel cielo ciarliere. //Abbiamo fatto silenzio nel mondo/ col nostro amore// Abbiamo stupito il creato,/ abbiamo fermato il tempo,/ che ora batte il battito/ per me del tuo cuore.” E ancora: “Io desidero sedermi / all’ombra del mio Amato/ il suo frutto è dolce al mio palato.”
L’amore è dunque presenza forte, ingombrante, e riesce ad occupare il mondo e a imporre il silenzio dei sentimenti forti. Tutto il baccano del mondo non può sovrastare la voce dell’amore; questa voce d’amore dà nome alle cose, colore ai volti, pelle ai corpi, baci ai baci. Non si dimentica la sensualità dell’amore. Come potrebbe l’uomo dimenticare se stesso, la sua natura? Così anche Lui s’abbandona al piacere dell’incontro e dell’amplesso: “Oh cara, vieni e rimani ora con me/ tu sei l’ultimo abisso. Vieni e tienimi / vieni e mettiti comoda adesso nella frase/ così rannicchiati contro il tempo amiamo tutto di noi/ e ci baciamo. Io sento ora la tua bocca/ io sento il soffio, la tua lingua/ la saliva parla si scambia dolce/ e tutto quello che tu sei, adesso sono io/ con te confuso nel tuo viso”.
Come non pensare a Neruda e alla sua Canzone disperata? Come non pensare a Elena, lucore degli Elisi, – come dice la Valacca – che si rammarica di non aver potuto vivere questa intensità d’amore e invidia la nostra poetessa che invece vive un sentimento unico con il suo amato con il quale, insieme, si congiungono all’eterno.
C’è sempre, in questi versi l’accensione spirituale, la fiamma di quel sole che illumina tutta la creazione. Il Dio biblico ha qui una presenza costante perché ogni sentimento, ogni passione, ogni trasalimento alla fine viene sublimato nella sua presenza. È come se Dio fosse il sapore della storia, il colore di fondo di un quadro, il punto alto e solenne di una matassa di fili che a lui si congiungono. E come non pensare anche al concetto dell’Uno nella filosofia greca, da Pitagora e Parmenide fino a Platone e Aristotile? L’Uno dal quale deriva il molteplice che per Aristotile diventa il motore immobile e per sant’Agostino si identifica con Dio stesso. Se dall’Uno veniamo, all’Uno torniamo; la strada maestra di questo viaggio è quella dell’amore.
Su questo argomento appaiono illuminanti le parole di Dieter Schlesak, riportate da Vivetta Vallacca nella postfazione al volume: “Dio, l’UNO, è stato frammentato dall’Uomo: donna e uomo, che in verità non sono divisi, solo con quell’atto di peccato – mangiando la RATIO, la falsa conoscenza visibile – si vedono ingannevolmente solo come corpi, si CREDONO divisi. Ma tendono sempre all’insieme, all’UNO, per arrivare all’unificazione magica e nell’estasi TRANS: il Re e la Regina in ebraico! II femminile e il maschile come simbolo del mondo visibile e della sua divisione.
Allora mi vien facile capire il senso profondo di queste pagine: è il poema dell’UNO in cui confluiscono le molteplici espressioni umane e spirituali di queste due anime. Tutto il flusso degli eventi cosmici dovrà per forza ritornare al suo creatore e quindi le anime che hanno trovato ospitalità in questa terra sono destinate a ricongiungersi con Dio.
Non è l’androgino del quale ci parla Platone, né l’uomo solo vagante nel giardino del Paradiso Terrestre, né la vaga idea di una unione di sessi e di personalità; forse c’è tutto questo ma essenzialmente l’Uno del quale ci parlano i nostri due poeti è la molteplicità ricomposta, la consapevole introiezione dell’uno nell’altra sotto le forme complete del corpo e dell’anima. Questo ricongiungimento, che poi avviene solo nella dimensione di Dio e per suo mezzo, è un anticipo dell’eternità alla quale tendono le anime pure. La luce dell’anima del titolo è proprio uno squarcio dell’eterno e ci illumina nella tenebra del mondo. Tutta la nostra natura è chiamata a questo miracolo: chi arriva all’estasi lo fa da solo, chi ama l’altro lo fa insieme alla persona amata.

Gli angeli
Un’altra notazione è da farsi a proposito degli angeli. È una presenza costante nel libro, la percezione precisa di quella Luce che dà il titolo al poema. Scrive Lui: “L’impero caotico della morte… ci vuole uccidere… togliendoci la luce e quegli angeli che ci proteggono…” E lei di rimando: “Aspetto gli angeli / che portano cibo ai profeti,/ lo seppero bene Eliseo e Giona/ come consuma l’Amore”. È superfluo ricordare la presenza degli angeli in tutta la Bibbia, nel vecchio e nel nuovo Testamento. Loro portano la luce e il sogno, la visione e la profezia, la Parola di Dio e la spada dell’Apocalisse. Sono I messaggeri di Dio e I nostril nascosti suggeritori. È impressionante questo ritorno della presenza angelica nella vita quotidiana dell’uomo modern. Sono usciti molti volumi su di loro, recentemente, e una nuova angiologia sta prendendo corpo nella ricerca teologica.

Lo stile
Ma non posso congedarmi da voi senza parlarvi brevemente della stilistica di quest’opera. La pregevole fattura in cui si dispiega questo canto a due voci rimanda direttamente all’intreccio del Cantico dei Cantici, come abbiamo gà detto. Il dialogo è frastagliato, l’uno spesso si insirisce nell’altra e viceversa; non c’è una domanda e una risposta ma una riflessione a due voci che trova nel profondo del loro cuore infinite consonanze, un continuo flusso di parole d’amore: un canestro intrecciato, circolare, infinito nel suo cammino. Le due voci, la maschile e la femminile, pur avendo registri diversi, si bilanciano, e insieme compongono quella sinfonia musicale che sta alla base del loro canto.
Sì, perché si nota un compiacimento del verso e della parola poetica, dell’immagine che fluisce come acqua pura, della metafora adita e distesa come un lenzuolo al sole, dell’uso di una parsimoniosa punteggiatura e di una ricchissima presenza delle maiuoscole. Tutti i pronomi possessivi – IO, TU, NOI, TE – sono scritti in maiuscolo così come le parole più importanti come Amore, Poesia, Parola, Cielo, Amatissima, ecc. Ad esse, a queste parole, è affidato lo spirito dell’amore e quindi devono suscitare quell’enfasi che i grandi sentimenti portano con sé. Ma altri accorgimenti grammaticali sono spie precise di questa agognata unità: generalmente i sintagmi amoremio e mioamore sono scritti uniti, senza spazio fra le due parole. E pure i trattini, le barrette, gli spazi, la scarna punteggiatura, il titolo incorporato nella strofa, appartengono a quella sfera di una semiotica capace di esprimere le numerose variazioni dei sentimenti, degli stati d’animo, delle effusioni d’amore.
La struttura del verso libero e polimetrico ben si adatta all’opera e al suo contenuto. La libertà dei versi rende visibile la libertà dello spirito che pervade l’opera. Noi abbiamo letto questo poema nella sua traduzione italiana, pertanto non conosciamo quale suggestione musicale possa sprigionarsi dal testo tedesco. Ma questo ci basta per potere sottoscrivere quanto abbiamo detto. Grazie.

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