Una scrittrice di prim’ordine fra quelle di seconda qualità.

Menschen im Hotel, il titolo del romanzo di Vicki Baum che la casa editrice Ullstein pubblicò a Berlino nell’estate del 1929, se lo si volesse rendere letteralmente, in italiano suonerebbe “Gente in albergo”. Ma già per la prima traduzione di Menschen im Hotel, quella in inglese (1930), si preferì il titolo Grand Hotel, che sarebbe rimasto inalterato anche nelle successive traduzioni in francese (1931) e in italiano (1932). Il divario fra i due titoli lascia dedurre come da parte della Baum si volesse mettere l’accento sui sei personaggi principali del suo romanzo e sull’intrecciarsi delle loro vicende, mentre invece, da parte degli editori e dei traduttori stranieri, venisse privilegiato, tanto da farne una sorta di “eroe eponimo”, il settimo protagonista implicito dell’opera: il Grand Hotel in sé. E fu forse anche la connotazione seduttiva legata a questa scelta editoriale che contribuì all’enorme successo del libro fuori dai confini tedeschi, dove la sua autrice non era ancora molto conosciuta.Già prima del romanzo della Baum la particolarissima aura dei Grand Hotel aveva fatto da sfondo a non poche opere letterarie. Basti pensare all’Hôtel des Bains in La morte a Venezia di Thomas Mann, all’Hotel Occidental in America di Franz Kafka o al Grand Hôtel di Cabourg-Balbec in All’ombra delle fanciulle in fiore di Marcel Proust. All’epoca in cui scrisse la Baum però, alla fine degli anni Venti, il Grand Hotel era ormai un luogo della memoria, il simulacro di una stagione della high society europea e dei suoi fasti, definitivamente tramontati dopo la carneficina della “grande guerra” e dopo il cataclisma geopolitico che ne seguì. All’interno delle nuove e sempre più problematiche società di massa, destabilizzate dall’inflazione e contrassegnate da una crescente mobilità dei ceti verso l’alto e verso il basso, non avrebbe dovuto esserci più posto, a fil di logica, per un luogo che, sin dalle sue origini tardottocentesche, di un riservato, intransigente e monolitico esclusivismo aveva fatto la sua qualità più spiccata. Paradossalmente, invece, proprio nel periodo dell’entre-deux-guerres il Grand Hotel, imbalsamato nel suo rigido decoro ma ormai alla portata di chiunque ne avesse i mezzi, sopravvisse nell’estremo bagliore di un prolungato crepuscolo. Il suo anacronismo e la sua musealità concorsero anzi a renderlo un vero e proprio mito; una sorta di luogo extraterritoriale, sospeso sopra le vicissitudini storiche che avevano radicalmente mutato uomini e cose a lui circostanti; una specie di tempio, governato da rituali che nella loro immutabilità sembravano voler esorcizzare la fine del “mondo di ieri”.I princìpi dell’ordine e della gerarchia, messi in discussione dai sovvertimenti del dopoguerra, nell’apparato scenico del Grand Hotel regnavano ancora sovrani: a partire dal marciapiede antistante l’edificio, dove andava su e giù un guardaporta, reso ancor più imponente dalla sua gallonata uniforme, quella così cara e così fatale allo Emil Jannings di L’ultima risata, il film che Murnau gira a Berlino nel 1924. E poi, al suo interno, tutto il Grand Hotel era un trionfo di uniformi, di berretti con e senza visiera, di chepì, di livree, di casacche a righe, di grembiuli, di marsine con e senza chiavi incrociate, così da rendere percepibili a colpo d’occhio tutti i molteplici gradi di una precisa gerarchia, dal direttore al concierge, dalla semplice cameriera alla governante di piano, dall’inserviente di camera al groom tuttofare e al facchino portabagli. Un innumerevole personale che si aggirava con silenziosa solerzia per quegli ambienti formalizzati da un’inalterabile distribuzione spaziale e denominati sovente con anglicismi, quasi a sottolinearne la frequentazione da parte di un’élite internazionale: la hall e la zona della reception, il winter garden, il tea-room, le varie sale per la colazione, la lettura, la scrittura, le riunioni, il ballo; con poche concessioni ai nuovi tempi, come l’american bar o il jazz-band, che accompagnava adesso il canonico tè delle cinque. Nelle sue regole inderogabili e nella sua disciplina, discreta ma ferrea, era una riproduzione in miniatura della società d’anteguerra, come la si idealizzava nel ricordo o nel rimpianto, un cosmo perfettamente ordinato, accedendo al quale era possibile mettere fra parentesi l’inquietante caos di una realtà esterna in rapido divenire: bastava lasciarsi involvere fra i lucidi vetri della fatidica porta girevole che caratterizzava la facciata di tutti i Grand Hotel. Caos reale di qua dai vetri e cosmo artificiale di là da essi venivano ininterrottamente correlati, ma al tempo stesso nettamente separati, dal movimento circolare di quella porta che sovrapponeva, seppure in una continua provvisorietà, la funzione dell’aprirsi e del chiudersi, dell’includere e dell’escludere. Si è detto del Grand Hotel come settimo personaggio del romanzo sia per il gran rilievo dato nell’opera alla descrizione dei suoi rigidi rituali sia perché la prevedibile e immutabile ripetitività di tali rituali viene messa intenzionalmente in contrasto con le impreviste metamorfosi a cui soggiacciono tutti gli altri personaggi principali. Non diversamente dal Gustav von Aschenbach manniano, dal Karl Roßmann kafkiano o dal Narratore proustiano, anche per i sei personaggi della Baum la conseguenza del loro soggiorno in albergo è soprattutto una rivelazione di sé a se stessi; ovvero, come ci tiene a sottolineare la scrittrice: «E’ una cosa strana, quella che succede agli ospiti di un grande albergo. Nessuno esce dalla porta girevole tale e quale com’era al suo arrivo». All’inizio del romanzo ciascuno dei sei personaggi è in attesa di qualcosa che riesca a fargli superare la grave crisi che sta attraversando. Seguendo l’ordine della loro entrata in scena: Otternschlag è un reduce, un uomo che è tornato dalla traumatica esperienza della guerra vistosamente segnato nel fisico e nel morale; «distrutto», come dice Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale, anche se è sopravvissuto alle granate. Gaigern è un giovane nobile spiantato; diversamente da Otternschlag, ha vissuto la guerra come avventura, stenta a riadattarsi nella “normalità” della Germania postbellica e s’è ridotto a fare il topo d’albergo per continuare a concedersi i lussi a cui è abituato. Kringelein è un contabile d’una piccola città di provincia; i medici gli hanno diagnosticato poche settimane di vita e lui, tagliando i ponti con tutto e con tutti, ha deciso di spenderle nel migliore hotel di Berlino per conoscere in extremis quella che lui chiama «la vera vita». La Grusinskaja, una celebre ballerina sul viale del tramonto, insegue il sogno di un improbabile revival. Preysing, direttore generale d’una fabbrica tessile in difficoltà, spera nella problematica fusione con un’altra fabbrica per risollevare le sorti della propria azienda. Fiammetta cerca di sbarcare il lunario con saltuari impieghi da dattilografa o da modella per foto di nudo, sognando intanto di sfondare, finché è giovane, nel mondo del cinema o dello spettacolo. Nessuno di loro riuscirà a superare la propria crisi o a raggiungere gli obiettivi su cui puntava, ma per ognuno, come s’è detto, l’accidentale incontro con gli altri personaggi farà da reagente a componenti insospettate della sua personalità. Non c’è un protagonista principale e le vicende dei sei personaggi vengono riferite in parallelo, nel loro intrecciarsi lungo i quattro giorni in cui si svolge l’azione: una scelta narrativa in cui è evidente l’influsso di Manhattan Transfer di Dos Passos, che era stato tradotto in tedesco nel 1927 e il cui modello di group novel Vicki Baum fu tra le prime ad adottare. Tale modello consentì nello stesso tempo all’autrice, col differenziato repertorio tipologico dei suoi personaggi, di delineare uno spaccato della società tedesca del dopoguerra sullo sfondo di una Berlino che richiama assai da vicino (specie negli episodi che vedono Gaigern fare da guida cittadina al Kringelein assetato di nuove esperienze) la frenetica metropoli descritta per immagini da Walther Ruttmann nel film Berlin. Die Sinfonie der Grosstadt del 1927. Una Berlino che si affianca anche al labirinto urbano in cui si aggira Franz Biberkopf, il protagonista di Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, pubblicato nello stesso anno di Grand Hotel. E’ innegabile infatti come nel romanzo della Baum si rifletta quel gusto per un neonaturalismo documentario che, sotto il nome di “nuova oggettività”, fu di gran moda in Germania in quel torno di tempo. Diversamente da Döblin, tuttavia, l’autrice di Grand Hotel rinunzia alle asperità di una scrittura sperimentale portata alle sue estreme conseguenze. Con un tratto di lucida autoconsapevolezza o forse, più probabilmente, di ironico understatement Vicki Baum amava definirsi «una scrittrice di prim’ordine fra quelle di seconda qualità». Componendo l’elaborata trama di Grand Hotel aveva chiaramente il proposito di dare alle stampe un romanzo d’intrattenimento, un’opera che fosse in grado di raggiungere vasti settori di un pubblico di massa, pur veicolando un quadro problematico della società contemporanea e non i consueti temi d’evasione della tradizionale letteratura di consumo. E anche questo era uno dei punti programmatici della “nuova oggettività”, disposta a rinunziare alla cosiddetta autonomia dell’arte pur di soddisfare con una risposta di adeguato ma accessibile livello culturale le crescenti aspettative di svago del nuovo pubblico formatosi sui ritmi della vita metropolitana. Sotto la superficie pianamente accessibile della sua scrittura “di seconda qualità”, che certo contribuì all’enorme successo del libro in Germania e all’estero, la Baum dissimula tuttavia non pochi accorgimenti compositivi che la rivelano un’attenta assimilatrice delle nuove tecniche letterarie allora in fieri. Una prima innovazione è data dall’intenzionale contaminazione di alcuni dei generi tradizionali della letteratura d’intrattenimento: in Grand Hotel si mescolano insieme, in un gioco parodistico, gli stereotipi del romanzo inchiesta, del romanzo poliziesco, del romanzo metropolitano e del romanzo rosa. Il pastiche che ne deriva ha una forte valenza ironica, sottolineata oltretutto dallo scarto straniante e relativizzante prodotto dalla frequente giustapposizione del punto di vista dell’autrice con quello interiore dei singoli personaggi, le aspettative dei quali vengono puntualmente disattese. L’assenza di un vero e proprio happy ending inoltre viola una delle regole fondamentali di alcuni dei generi letterari contaminati, soprattutto di quello rosa, le cui vie in certi momenti il romanzo sembra voler battere. Ma è soprattutto il ductus narrativo adottato dalla Baum a fare di Grand Hotel un prototipo della tecnica letteraria della modernità. Dietro un’apparenza di totale convenzionalità la sua scrittura procede in modo del tutto irregolare. Sul basso continuo spazio-temporale della vita dell’albergo con le sue immutabili cadenze, l’evolversi delle vicende dei singoli personaggi viene narrato con una inconsueta alternanza di ritmi, in un succedersi di improvvise accelerazioni e di distesi rallentamenti intercalati da flashback relativi al passato di ciascuno di loro. Questa inusuale dinamica delle sequenze è causa ed effetto di una particolare tecnica di montaggio di evidente derivazione cinematografica, basata com’è su un assiduo scambio di prospettiva, dalla panoramica della vita d’albergo, ai primi piani dei personaggi, agli zoom sui loro volti e sulle loro storie. Fu questo un aspetto del romanzo che non mancò di colpire l’attenzione dei recensori statunitensi, quando, nel 1931, la traduzione inglese venne pubblicata anche nel loro Paese, dove occupò per parecchio tempo la classifica dei primi dieci bestseller. La critica americana parlò di «pure cinema» in vesti letterarie, per via della minuziosità fotografica, della simultaneità delle vicende e, fra l’altro, dell’«azzeccata chiusura in dissolvenza» con la porta girevole che continua a ruotare. Da lì a poco sarebbe infatti seguita la versione cinematografica del romanzo. Ma già a Berlino lo strepitoso successo di Menschen im Hotel aveva indotto Gustav Gründgens, il grande attore e regista tedesco, a realizzare, malgrado le perplessità della Baum, un adattamento teatrale del romanzo, che nella primavera del 1930 andò in scena al Theater am Nollendorfplatz sul palcoscenico girevole ideato da Erwin Piscator. Da lì l’idea di una versione teatrale passò negli Stati Uniti, dove, su un copione elaborato da William Drake e con la regia di Herman Shumlin, le rappresentazioni di Grand Hotel si protrassero per 459 repliche, fra il 1930 e il 1932, al National Theatre di New York. Tutto sommato, un successo non indifferente per una “scrittrice di seconda qualità”. La vera risonanza internazionale sarebbe comunque arrivata grazie al medium del cinema, per il quale il romanzo sembrava essere stato appositamente scritto. Nel film Grand Hotel, diretto da Edmund Goulding nel 1932 e vincitore dell’Oscar di quell’anno, la Metro-Goldwyn-Mayer impiegò infatti per la prima volta la formula dello all-star cast, con Greta Garbo, John e Lionel Barrymore, Wallace Beery, Lewis Stone nonché una giovanissima Joan Crawford nei ruoli principali. La fama di questo classico della cinematografia hollywoodiana non avrebbe subìto alterazioni nei decenni successivi, tanto che – una curiosità per i cinefili – è proprio Grand Hotel di Goulding il film che C. C. Baxter (Jack Lemmon), l’indimenticabile protagonista di L’appartamento di Billy Wilder, cerca di guardare alla televisione, continuamente infastidito dagli spot pubblicitari, prima di venire interrotto, una volta per tutte, dall’ennesimo cliente della sua improvvisata garçonnière. Un successo ben minore toccò, come spesso accade, ad un tentativo di remake della versione cinematografica, realizzato in Germania nel 1959 dal regista Gottfried Reinhardt, malgrado la presenza sullo schermo di due attori come Michèle Morgan e Heinz Rühmann. Ma ancora nel 1989 Broadway fu messa in subbuglio dall’avvenimento dell’anno: Grand Hotel The Musical, una rivisitazione del romanzo della Baum in formato, appunto, di musical, compiuta dal celebre regista e coreografo Tommy Tune, quello di Hello, Dolly!, con Liliane Montefoschi nel ruolo della Grusinskaja. Quasi a dimostrazione di come l’ingegnoso plot ideato da Vicki Baum nel lontano 1929 riesca sempre a suscitare, seppure in versione nostalgia, quelle che oggi è di moda chiamare emotions.

Prof. Mario Rubino Università di Palermo

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